L’ acquavite o Filu ‘e ferru la grappa di Sardegna

L’ acquavite sarda ha una alta gradazione alcolica.
Quando in Sardegna si parla di grappa e di acquavite si parla del filu ‘e ferru (o filu de ferru), traducibile letteralmente con “filo di ferro“.
In alcune zone dell’isola, tuttavia, viene chiamata anche abbardente (o acuardenti) che significa “acqua che arde, che prende fuoco” ed è, quindi, molto forte.
La gradazione di questa acquavite è, infatti, decisamente elevata: tra i 40° e 55°.

Non si esagera se si definisce il l filu ‘e ferru uno dei simboli dell’ospitalità sarda.
L’abitudine di invitare a bere (in sardo cumbidare) è infatti molto radica nell’isola.
La grappa sarda, inoltre, ben si accompagna ai piatti tipici della Sardegna, come il maialetto o i dolci alle mandorle.
Incolore e non aromatizzata l’acquavite di Sardegna ha sentori che ricordano in modo più o meno marcato i profumi dei vini e delle vinacce d’origine.

Per la produzione, infatti, vengono distillate vinacce sarde sceltissime (di alta qualità sono le acquaviti ottenute dalla distillazione delle vinacce di Vernaccia uno dei migliori vini sardi).
Varianti al distillato base sono l’acquavite aromatizzata con essenze spontanee tipiche della Sardegna quale corbezzolo, i semi di finocchietto selvatico.
In Ogliastra, ancora oggi, quasi esclusivamente a livello familiare o comunque artigianale, si produce anche un filu ‘e ferru con aggiunta di caglio di agnello o capretto locali.
Questi ingredienti per loro natura acidi donano al distillato un aroma unico ed un gusto particolarmente acre e caratteristico.
Questa varietà viene prodotta e consumata soprattutto dai pastori e i loro garzoni di pascolo in particolari occasioni di festa rurale o estemporanee dimostrazioni di balentìa.

Storia dell’ Acquavite

Il filu ‘e ferru, oggi è un PATProdotti Agroalimentari Tradizionali, ma la sua storia è alquanto rocambolesca.
Questa acquavite, infatti, deve il suo caratteristico nome ad una pratica nata nel periodo del proibizionismo sardo.
Per molti secoli, i sardi hanno consumato la grappa – che spesso e volentieri producevano in casa – in assoluta libertà.
Il distillato, inoltre, apprezzato anche dai monaci che non disdegnavano il suo utilizzo come rimedio naturale, rappresentava una valida fonte di sostentamento per numerose famiglie.
Nel 1874, però, il governo sabaudo, con una legge sui monopoli di Stato, vietò la produzione casalinga di distillati.
Per proseguire nell’attività, era dunque necessario pagare alcune tasse ad hoc ed ottenere delle specifiche autorizzazioni.

 

Nonostante tutti, gli aspiranti distillatori sardi non si persero d’animo.
Per aggirare la nuova normativa, infatti, la produzione iniziò d avvenire di nascosto, spesso durante le ore notturne.
Leggenda vuole che a ricevere l’incarico di nascondere il “crimine”, facendo sparire damigiane, alambicchi e altri attrezzi del mestiere, fossero le donne.
Per continuare la produzione, dunque, si crearono mobili a doppio fondo, botole e si idearono mille e più stratagemmi.
Spesso e volentieri, dunque, ad indicare la presenza delle bottiglie colme di distillato, e chiuse con il fil di ferro veniva lasciato sporgere dal mobilio o dal terreno un sottile filo di ferro. Da tale pratica quindi, deriverebbe il nome tipico di filu ‘e ferru. PRODUZIONE Per produrre la tipica grappa sarda, come già accennato, si utilizzano vinacce sarde selezionate.
Questo distillato, ottenuto con l’impiego del classico alambicco (formato da una caldaia munita di tappo e tubo, uscente dalla sua parte superiore e da un contenitore cilindrico e una serpentina che consente di condensare i vapori provenienti dall’ebollizione) prevede un processo di doppia distillazione di vini e/o vinacce a temperatura controllata, scartando la testa e la coda del distillato. Le vinacce e l’acqua sono poste nella caldaia e portate ad ebollizione.

Il tappo della caldaia è munito di termometro, utile a comprendere la temperatura ideale per la fuoruscita dei vapori.
Per un prodotto di qualità, questa si pone tra gli 82° e i 96°.
Il vapore percorre dunque la serpentina, posta all’interno di un contenitore cilindrico riempito di acqua. In tal modo, il vapore bollente si raffredda e prende forma liquida.
In passato gli strumento erano senz’altro molto più caserecci di quelli moderni.
Per evitare alcuni inconvenienti in fase di ebollizione, ad esempio, erano posti nella caldaia alcuni rami secchi.
Allo stesso modo, l’uso del termometro non era diffuso tra la popolazione. Il tappo della caldaia era dunque formato da un semplice impasto molle a base di farina.
Le vinacce stoccate, ricordiamo, oggi sono trasportate presso le distillerie autorizzate, dove unite a vini vengono sottoposte al processo di doppia distillazione con appositi alambicchi. Il corpo del distillato, che costituisce la bevanda, viene conservato in botti di rovere e sottoposto ad un periodo di stagionatura di 1 anno.

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